Ian Penman
Atlantide, 2020
Quando non ci sono più rimedi, quando la bussola è rotta, a una cosa abbiamo imparato ad affidarci io e altri come me: la musica ha davvero il potere di farci sentire in una specie di casa (cit. p.8)
Ian Penman parla di musica come di qualcosa da ascoltare attentamente e non perde tempo nel far capire al lettore come le canzoni debbano essere un argomento di cui parlare seriamente.
Mi porta a casa, questa curva strada è un libro splendido che fin dal titolo mette le cose in chiaro, prelevando di peso il nome da una poesia di W.H. Auden non nega ma mette in mostra la sua correlazione letteraria. Pur avendo saggi completamente slegati tra loro è la personalità dell’autore che emerge, è il suo modo peculiare di raccontare che tiene incollato alla lettura, sembra una forma di racconto estremamente intimo, come se stesse svelando proprio a te i segreti che hai sempre voluto ascoltare.
In questi otto saggi, editi sulla London Review Books e sul City Journal, Penman è l’autorevole padrone di casa e le sue parole danzano come squali intorno agli argomenti avvicinandosi sempre di più al cuore del bersaglio, donandogli una tridimensionalità che manca molto spesso anche nelle disamine più autorevoli che si aggirano lungo sentieri già battuti, formulano opinioni giù formulate e postulano ciò che è già di pubblico dominio. Ian Penman non fa nulla di tutto questo, le sue parole sono dritte e taglienti, non servono per incensare ma per affrontare criticamente ciò di cui si discute in un labirinto infinito di rimandi e digressioni che non allontanano mai dal focus centrale ma anzi hanno il potere di arricchirlo, renderlo vivo e corposo con la propria personale opinione critica.

Il saggio iniziale punta a una ricostruzione socioculturale della generazione Mod che, se non nuovissima, si dimostra di sicuro interessante e ben scritta con una stroncatura a tutto campo, tagliente e approfondita del famoso libro Mod: A very British Style di Richard Weight; e sarebbe straordinario anche solo per questo perché è una ventata d’aria fresca in questa epoca di critica asettica e asservita, sentire chi dice la propria con autorevolezza, dimostrando che la stroncatura, quella fatta bene, se non è un’arte ci va molto vicino. La lettura di questi otto è perfettamente godibile e scorrevole per chiunque, ma con una fitta rete di indizi nascosti che si insinuano nella mente, nascosti tra le parole, un vezzo artistico che definisce la scrittura di Ian Penman.
Personalmente sono rimasto incantato da come ha saputo scrivere di Charlie Parker, le parole sembrano letteralmente prendere fuoco, e da come ha affrontato la carismatica figura di James Brown, non è cosa da poco.
Nato nel 1933, Brown imparò la caparbietà negli anni Cinquanta, in un ambiente della musica che era un rozzo garbuglio di egemonia mafiosa e profitti fuori dal comune. Credeva nel potere redentore del farsi un mazzo tanto come altri credevano nel sangue dell’agnello (cit. p 35)
Si tratteggia l’immagine di un’artista di successo e al contempo di un uomo che non ha saputo essere nient’altro che se stesso, nascondendo dietro una faccia da star oscurità non sondabili facilmente. Ancora, quando parla di John Fahey, il critico ha il coraggio di dire ciò che sommessamente tutti abbiamo pensato rapportando i primi fasti con le estreme battute d’arresto di fine carriera; pian piano scrutiamo le insondabili e vertiginose montagne russe dell’emozionalità di questi cantanti, di questi artisti vedendoli da una prospettiva anche umana e questo ci lascia un tarlo un dubbio che alberga nel profondo del cuore o nel retro del cranio, pronto a sbucare in momenti inopportuni…
Quante madornali malefatte siamo disposti a sopportare, a fingere di non vedere o a giustificare, pur di avere in cambio arte magnifica, e magari redentrice (cit. p. 11)
Su ogni cosa domina La vita oltre la morte di Frank Sinatra, è un mix di delicato swing quello che esce dalla sua penna; il modo impressionistico dai caldi toni pastello con cui dipinge Sinatra mi ha letteralmente stregato. Un’immagine vulnerabile e allo stesso tempo così potente da lasciare storditi.

Il libro che Atlantide ha portato in Italia è una piccola gemma rara all’interno della tradizione della critica musicale, dove narrazione e musica si intrecciano divenendo l’una il puntello dell’altra in un rapporto di interdipendenza insidioso ed estremamente affascinante: sia per visione d’insieme che per una scelta stilistica è impossibile trovare qualcuno che scriva allo stesso modo di Ian Penman.
Grazie di essere stato con me fino alla fine della recensione, se il libro ti ha incuriosito puoi acquistarlo qui. Una piccola parte del tuo acquisto aiuterà a sostenere la mia passione di condividere storie letterarie musicali.